Approfittando dello stato di smart-working attraverso cui numerosissimi professionisti delle maggiori agenzie italiane stanno portando avanti i propri progetti, abbiamo virtualmente fatto visita a casa di Paolo Boccardi, pluripremiato Creative Director di McCann, creatore di importanti campagne per brand come Samsung, Fiat, Hugo Boss e Nike – che ci ha regalato un’intervista colma di enorme significato per tutti i professionisti e amanti della comunicazione.
Con Paolo abbiamo ripercorso insieme le origini della sua grande carriera, abbiamo approfondito i profondi concetti che guidano da più di trent’anni la sua direzione artistica, fino a commentare le grandi sfide che l’anno corrente ha riservato ai brand più importanti.
Un’intervista ricca di “dietro le quinte”, di segreti del mestiere e di preziosi suggerimenti che noi di Pirati Grafici consigliamo vivamente in particolare a tutti gli studenti, in procinto di immettersi nel mondo delle agenzie, del design e della pubblicità!
Da Trani alle grandi agenzie di Milano: come Paolo Boccardi è diventato Creative Director
Creative Director digitale di McCann, già direttore digitale anche di Leo Burnett, una carriera passata a raccontare brand di altissimo livello, un numero incredibile di premi sugli scaffali e perfino un grande talento nella fotografia fashion. Questo è ciò che si può trovare con una semplice ricerca su internet al nome di Paolo Boccardi. Ma invece tu come ti definisci?
Mi vedo come una persona molto curiosa da sempre, da piccolino, di tutto quello che mi circonda e di tutto quello che è colorato; sono un grande appassionato di disegni, di fumetti e da ragazzino li disegnavo tanto, anche sette o otto ore al giorno.
La parte di curiosità che mi ha inizialmente avvicinato al disegno è quella che mi ha fatto scattare la scintilla su tutto quello che è il mondo che è poi oggi il mio lavoro: il disegno a matita è diventato per gioco – stiamo parlando di quando avevo 14 o 15 anni, oggi ne ho 44 – qualche disegno grafico per volantini e qualche manifesto di eventi culturali nel mio paese, Trani, bellissima città sul mare in Puglia. Da quel momento è iniziato un amore che non è più finito.
In termini di studi universitari, ho fatto giurisprudenza perché ho seguito le orme di mio padre che era avvocato, ma non mi sono mai infilato in quel mondo; ho sempre seguito tutto quello che significava per me curiosità: come il cinema, il fumetto e la musica, organizzando con i miei amici di Trani eventi e concerti o creando a 16 anni un corso di fumetto per i più piccoli.

Mio padre e mio fratello erano appassionati di fotografia; l’ambiente familiare mi ha aiutato certamente tantissimo da questo punto di vista: se a Milano è infatti molto più semplice avere mille stimoli culturali e visivi, è molto più difficile per chi è in un paese più piccolo (ora con internet è certamente più possibile, ma uno deve comunque andarseli a cercare).
Quando io ero giovane da cercare c’era ben poco: c’era da inventare e da inventarsi degli stimoli. Ho caratterizzato tutta la mia vita intorno allo spingermi ogni volta un pochino oltre rispetto quello che offriva ciò che avevo intorno: mi ha permesso di andare sempre avanti e di approdare poi a Milano – con il classico zainetto e qualche vestito, come si faceva un tempo – a lavorare in agenzie di comunicazione prima piccoline e poi progressivamente più grandi, fino a Leo Burnett e McCann.

Ciò che mi ha caratterizzato è la voglia di farmi sempre una domanda in più rispetto a quello che sto vedendo – un film, un fumetto, un libro – e di chiedermi come è stato fatto, quale sia stato il processo creativo che ha portato a un’invenzione, quale sia il suo contesto storico e culturale.
Bisogna sempre porsi una domanda, per poi cercare una risposta; poco importa se a volte non la si trova: questo permette di andare avanti, in un processo simile a quello scientifico. Anche io mi sento di fare, un po’ come uno scienziato, ricerca in continuazione.
“Bisogna sempre porsi una domanda, per poi cercare una risposta; poco importa se a volte non la si trova”
Il tuo mondo quindi si estende improvvisamente quando decidi di passare da Trani a Milano: Ci vuoi raccontare la tua prima esperienza?
Diciamo che ero già un professionista; di solito si fa il percorso al contrario: io da giovanissimo ho aperto la mia società. Avevo già iniziato a lavorare nel mondo della comunicazione veramente tanto presto – a 19, 20 anni al massimo, in contemporanea con l’università – lavorando prima nella classica tipografia e, poi, in una delle prime agenzie di design digitale esistenti in Italia: bid.it , che non era altro che un portale di aste online, in un tempo in cui Ebay non era il leader incontrastato. Lì ho fatto due anni di art direction disegnando alcuni portali e-commerce per squadre di calcio come Bologna e Bari, in un’agenzia di Barletta composta da un’ottantina di persone, che oggi verrebbe considerata medio-grande.

Dopo quei due anni ho fatto il passettino in più, recuperando talenti all’interno e all’esterno di bid.it e aprendo un’agenzia esclusivamente di comunicazione digitale a Trani. Il desiderio era creare qualcosa che non trovavo nella realtà pugliese: c’erano studi grafici e agenzie pubblicitarie locali anche di buona qualità, ma non c’era nessuna che parlasse i nuovi linguaggi digitali, tranne appunto bid.it, che però aveva un approccio più standardizzato verso l’e-commerce, mentre io e i miei soci avevamo in testa qualcosa di più innovativo, qualitativo, simile a ciò di cui sentivo parlare nel resto del mondo e nel Nord Italia: siti in flash, animazioni di un certo tipo. Si parlava di un futuro del web fatto con un approccio diverso.
Dopo due anni di lavoro incessante in questa società di nome Arké, che nel frattempo aveva acquisito un know-how informatico molto forte nella creazione di pagine web, piattaforme digitali e siti di prodotto in flash con cataloghi aggiornati in tempo reale (ai tempi era complesso), ci siamo detti che la nostra avventura fosse finita lì: abbiamo venduto l’azienda.
A seguito di ciò, sono venuto a Milano: mi ero reso conto che era il posto per fare il grande passo dal punto di vista nazionale e internazionale. Già avevo lavorato dalla Puglia su Milano con due o tre aziende interessanti, fra cui la prima incarnazione di ItaliaOnline, e si assaporava come i clienti fossero totalmente differenti.

Mi sono trasferito senza alcun lavoro, perché sapevo che per trovarlo era necessario essere sul territorio, bussare alle porte. Mi ricordo che ho mandato tanti curricula e che l’unica agenzia che mi rispose fu proprio McCann Erickson – all’epoca si chiamava così – con una lettera in cui mi spiegavano che, malgrado il mio portfolio fosse di loro interesse, non erano però interessati a quel tipo di comunicazione.
Avevo allora un portfolio completamente digitale, perché ero convinto che le agenzie avrebbero fatto un passo in quella direzione, prima o poi; ma evidentemente era ancora troppo presto.
Ho iniziato quindi a lavorare con una piccola agenzia che si chiama Boutique Creativa, che all’interno ha una capacità di lavorare in tutti i rami della comunicazione perché ha in casa tutte le expertise, non ragazzi improvvisati ma professionisti che vogliono scappare dalle grandi agenzie per fare un lavoro fatto bene. A me piacque la filosofia dei proprietari di questa piccola struttura: non volevano morire facendo le notti su tutti i clienti pur di far business, ma creare una struttura per fare progetti – magari non i migliori del mondo – ma fatti molto bene e con i tempi giusti. Questa agenzia trovò in me uno stimolo enorme, dal momento che la loro parte digitale era completamente ferma. Ho fatto tre anni bellissimi da loro.

In Boutique Creativa mi sono avvicinato per la prima volta alla fotografia: all’inizio era una semplice passione, ma poi, affiancando un fotografo di grande bravura e lavorando in uno studio fotografico di 500 metri quadrati dall’attrezzatura inimmaginabile – che oggi non si troverebbe se non in qualche super studio milanese – ho iniziato a fare uso della luce per immaginarmi le campagne stampa, i cataloghi, le copertine dei dischi, ambiti per cui ho lavorato molto.
Il mio cruccio, tuttavia, era quello di andare a lavorare in una grande agenzia. Per attirare la loro attenzione, ho fatto qualcosa che qualche volta si è visto fare anche a Cannes e che ha vinto qualche leone: ho messo il mio profilo online e l’ho fatto arrivare come primo risultato di Google, lavorando sull’indicizzazione e sull’ottimizzazione del mio portfolio. In pratica, alla ricerca “art director” di quel periodo veniva sempre fuori il mio nome al primo posto.
Questa cosa colpì il neo-direttore creativo di Leo Burnett che mi chiamò subito e mi chiese come ci fossi riuscito e come avessi superato perfino portali di ricerca di personale e magazine. Questo evento mi portò a fare un colloquio e a essere preso all’interno di Arc, una società facente parte del loro network (Publicis infatti contiene Leo Burnett, che a propria volta ha all’interno altre piccole società acquistate e inglobate) che era specializzata in Shopping Marketing e che volevano far diventare azienda di Shopping Marketing Digitale.

Diventai così parte di un gruppo di quattro o cinque ragazzi che a Milano lavorava praticamente per tutti i clienti possibili dell’agenzia, da Pampero a ING Direct e Fiat. C’era anche una sede gemella della nostra a Torino, ma con più programmatori e meno spinta verso la creatività.
Abbiamo lavorato molto bene: dopo un solo anno io sono stato fatto direttore creativo – il più giovane della storia italiana di Leo Burnett – perché il primo aveva deciso di andare in un’altra agenzia. Questo ruolo mi ha permesso di proporre progetti di alto livello anche per i clienti del network, di lavorare con Montblanc, di vincere tante gare di Fiat (e di perderne tante altre), di condurre tanti progetti interessanti fino a lavorare con Samsung e P&G, lavorando con un team davvero molto grande di una sessantina di persone su tutti i livelli: siti e-commerce, piani social e attivazioni speciali.
Il Lavoro nelle grandi agenzie e le vittorie a Cannes delle campagne di Montblanc e Samsung
Tutto quello che facevamo era focalizzato a innalzare la qualità del lavoro dell’agenzia, il suo valore a livello nazionale: per riuscirci dovevamo innalzarci a livello internazionale e, se qualcosa funziona a livello internazionale, viene iscritto ai più importanti premi. Con Leo Burnett abbiamo colto il segno diverse volte e almeno due: con Samsung e il progetto “Maestros Academy” e con Montblanc e il progetto “The Beauty of a Second”, nati in un tempo – sette, otto anni fa – in cui il digitale era un po’ pionieristico, perché instradato verso la costruzione dalle fondamenta di una struttura che sarebbe diventata grande e articolata.
L’attivazione di Montblanc che spingeva le persone a caricare contenuti per creare qualcosa di più bello – nonostante fosse comunque un progetto craftato all’ennesima potenza, con un sito web straordinario, una persona d’eccezione che faceva sia da testimonial che da giudice e un grandissimo cliente – aveva tutte le caselle al posto giusto.
Il succo di quel progetto era scoprire e immaginare cosa ci fosse oltre il secondo, unità di tempo molto piccola: abbiamo pensato di unire un frammento della vita delle persone, secondo per secondo, unendo momenti anche molto diversi che però insieme creano una narrazione molto bella. L’idea aveva colto nel segno: il pubblico dava qualcosa alla brand e noi come brand facevamo qualcosa in più, rendendo il loro momento bellissimo e speciale. Era un branded content a cui abbiamo aggiunto una colonna sonora ad hoc e un concorso stimolante ed emozionale (il vincitore avrebbe incontrato il regista Wim Wenders, non certo una penna e basta).
Tutto questo era per celebrare i 100 anni del cronografo e per lanciare la nuova serie di cronografi di Montblanc: lavorare sulla sua awareness, che nel mondo digitale e dei cronografi era sconosciuta, rendendola speciale.


Stessa cosa accadde due anni dopo, nel 2014, quando abbiamo creato una piattaforma di E-learning molto particolare per Samsung: quelle di allora avevano dalla loro dei professori capaci che insegnavano online, mentre noi avevamo colto l’opportunità di unire i grandi maestri – artigiani di grande fama che costruiscono biciclette, stoffe, cappelli, che lavorano per grandi brand o per la pelletteria, mestieri che oggi vanno a morire – che non sapevano insegnare online e a cui abbiamo mostrato come usare la tecnologia per adoperarla, a loro volta, per insegnare ai giovani. Abbiamo dato dimostrazione di come la tecnologia di Samsung fosse facile da imparare anche per persone di 80, 90 anni che non avevano visto prima un cellulare.
Oggi è comune fare E-learning (lo abbiamo fatto nel Febbraio 2020 col Covid): noi lo abbiamo fatto nel 2014 con lezioni online, dispense, utilizzo creativo di tablet, streaming online.
Ma il nostro lavoro non era solo pionieristico per la direzione artistica, ma anche per il mio voler lavorare di P.R. pura, cioè di far conoscere il progetto al di là dei media classici della comunicazione. Se faccio uno spot questo viene visto in tv, ma il comunicato stampa esce sui media tradizionali, sui portali; il nostro obiettivo era completamente differente: non solo una campagna di comunicazione, ma un progetto utile per tutti.

Per questo siamo arrivati fino a Forbes, dove abbiamo rilasciato un’intervista per mostrare come questo tipo di iniziativa potesse far del bene all’umanità. Abbiamo fatto un esempio concreto, prendendo l’idea di uno dei talenti che hanno partecipato alle class organizzate e realizzandola davvero: una bicicletta ultra-tecnologica comunicante con lo smartphone, piena di telecamere e Arduino. Tutto questo intrigò tutto il mondo della tecnologia e dell’innovazione e ha permesso al progetto di arrivare su libri di divulgazione di un certo tipo e, a me, di approdare in McCann, la mia ultima isola felice in cui mi trovo ora.
Qual è il tuo approccio all’interno dell’art direction digitale e come si è voluto dall’inizio fino ad adesso?
È sempre stato quello di fare delle cose funzionali e belle: belle per i miei vicini, per i miei amici, per la regione, per l’Italia, internazionalmente. Non sono mai stato uno sperimentatore completo o fine a se stesso: il mio cruccio è sempre stato di avere un’art direction fruibile, bella, comprensibile e usabile da tutte le persone. Riunire un po’ la sperimentazione e un po’ la qualità, per le brand.
“il mio cruccio è sempre stato di avere un’art direction fruibile, bella, comprensibile e usabile da tutte le persone.”
Oggi non ci sarebbe spazio per un’art direction sperimentale: i siti web particolari delle grandi brand internazionali vengono probabilmente buttati giù dopo un anno, un anno e mezzo al massimo perché – una volta fatto il colpo gobbo o aver vinto il premio a Cannes – non sono utilizzabili dalle persone. Invece io cercavo sempre di lasciare il segno: per esempio Maestros Academy non è morto con Cannes, ma è un progetto vero, che è durato 5 anni con lezioni vere e partnership vere; il progetto di Montblanc era concreto: arte e scienza, unite dall’utilizzo da parte di tutti. Vedo tantissime cose bellissime da parte di art director giovani e internazionali. Molte cose sono comprensibili da tutte, e molte altre no. Io probabilmente faccio parte del primo mondo.
Una delle qualità che distingue il tuo modo di fare comunicazione è fare in modo che la campagna in sé abbia un significato ulteriore alla sua applicazione momentanea e che quindi possa rimanere in futuro: questo ti porta a strutturare il progetto in maniera completamente differente?
Sì: vedo che al giorno d’oggi l’art direction è focalizzata sulla figaggine del design, ma senza un’idea dietro, sottintesa. È più semplice farlo nell’ottica video, sul design apparentemente si può farlo meno; tuttavia, spingo sempre i miei creativi a trovare un’idea creativa alla base. Questo è un insegnamento che viene dalla pubblicità: il fatto di trovare un concetto del genere anche quando fai un sito istituzionale ti permette di costringerti – che sia tu un art director o un copywriter – a studiare il brand, come è nato, come sono fatti i prodotti e cosa il tuo pubblico si aspetta da te.
Vedo molti giovani puntare sull’impatto visivo, ma con uno svuotamento del significato; ciò che per un altro art director è una figata, per altri è noioso: lo guardano solo una volta, chiudono e se ne vanno. È il problema dei siti web (esclusi ovviamente quelli come i social, che vivono di un design funzionale) quando vengono costruiti: non c’è mai un motivo per cui tornare.
Qual è il progetto che ti rappresenta maggiormente?
Sicuramente Montblanc, dal punto di vista di Design è stata una pietra miliare dove la mia direzione creativa ha permesso di creare un sito web, lo dicono i premi ( ha vinto 8 leoni a Cannes). Uno degli aneddoti più interessanti è stato che Wim Wenders si è innamorato a tal punto del progetto, che ha chiesto un cachet misero per lavorarci; o che il layout è stato approvato dal cliente la prima volta che è stato presentato, dal momento che c’è stato un lavoro di direzione creativa così preciso che ho avuto la fortuna di avere dall’agenzia praticamente mani libere.
Mi rappresentano anche progetti che ho fatto per una brand di supermercati proprio quest’oggi: ogni lavoro è sempre il frutto delle idee precedenti, che ti permettono di risolvere problemi, trovare idee sempre nuove, freschezza dove è difficile trovarla.
Oggi mi occupo di ciò che oggi che si chiama digitale – con social e attivazioni – ma sono anche direttore di campagne stampa, di campagne tv, film, per il mondo farmaceutico e del food.
Ci sono sempre gli occhi del pubblico puntati e i progetti sono molto più fast che in passato: ce ne sono alcuni che muoiono nel giro di un mese o due, perché la gente se ne disinnamora.
In McCann lavoro per clienti completamente diversi da quelli di Leo Burnett: Nestlé, Despar e tanti altri che trovo affascinanti e divertenti, che hanno più mass market, che hanno problematiche quotidiane ad avvicinarsi al consumatore low-target di tutti i tipi e che chiedono un lavoro sui social e digitale in un mondo completamente diverso da quello del lusso, ma altrettanto difficile e competitivo.
Siamo passati da un’esperienza del digitale desktop a una 90% mobile e con l’esplosione dei social: qual è stata la modifica più sentita all’interno delle agenzie? Com’è cambiato il modo di fare dei clienti e le loro richieste negli ultimi anni?
L’approccio delle agenzie creative, più che quelle digitali, è sempre stata quella di rompere le regole con l’intenzione di “craccare il sistema”.
Ricordo un progetto di Samsung, uno degli ultimi che ho fatto in Leo Burnett, in cui abbiamo creato il primo campionato calcistico dei tifosi, dove questi spingevano le proprie squadre attraverso tweet e hashtag (ha vinto il Catania, non certo la Juventus).
Il nostro scopo era quello di craccare il sistema di Twitter creando dei “trending topic” che venivano spinti dalle persone, invitate a scrivere un messaggio con degli hashtag della propria squadra e dell’operazione: ciò era necessario per raccogliere punti e arrivare su una bacheca controllata automaticamente da un sistema che contava i post, li catalogava e contava.
Samsung ha lanciato questa campagna perché si stava avvicinando al mondo del calcio e voleva fare qualcosa di rilevante per le persone, non per il calcio in sé.
Un’altra volta Samsung propose di prendere spunto dai selfie, diventati ormai uno standard, per farne qualcosa di più ed entrare nel Guinness dei Primati. L’obiettivo era battere il record mondiale certificato di selfie creati in un arco di sole otto ore: ne abbiamo ricevuti dodicimila o tredicimila, ma non abbiamo vinto per trenta foto, non riconosciute come selfie dalla commissione perché avevano un’inquadratura per loro troppo larga.
Quest’ultima idea faceva parte del lancio di uno smartphone che aveva una camera wide, per creare un senso di appartenenza: la camera più larga infatti permetteva a tanti amici di entrare nella foto senza usare il “superbastone”.
Le nostre campagne hanno sempre mantenuto un certo significato e oggi lo mantengono ancora: lavoro insieme a una grandissima copywriter: creiamo una coppia che lavora su qualsiasi cosa e risolve problemi, spingendo sempre l’acceleratore per essere disruptive anche quando non è possibile.
Ecco l’insegnamento che do: portare sempre un’idea nuova, sempre diversa, rompere gli schemi un pochino. I nuovi schemi vengono creati da chi ha rotto le regole precedenti.
“Portare sempre un’idea nuova, sempre diversa, rompere gli schemi un pochino. I nuovi schemi vengono creati da chi ha rotto le regole precedenti.”
L’iPhone è nato proprio dal fatto che qualcuno ha voluto rompere la regola di avere un telefono con i tasti: se non ci fosse stata questa cosa ora non avremmo telefoni o orologi di questo tipo. Perché l’orologio deve segnare solo l’ora? Perché non può essere qualcos’altro? Se non ci fosse stata Garmin prima e Apple poi, che lo ha reso un po’ più tondo, non avremo gli smartwatch. L’orologio è un buon esempio: è rimasto sempre lo stesso da secoli, a parte la sua versione digitale o l’idea di fare la calcolatrice di Casio negli anni ’80; ci voleva un’azienda che rompesse gli schemi.
Io ho fatto questo quando sono entrato nel mondo del digitale, ora lo devono fare le persone che entrano nei vari ambiti, portando esperienze completamente diverse: l’approccio del mio attuale capo è infatti quello di trovare personalità, anche al di fuori del mondo della comunicazione.
Abbiamo lavorato con un giovane scrittore di Zelig all’interno del team e che ha fatto lavori splendidi e fuori di testa; uno degli art director che ha lavorato con me a Montblanc era un esperto di montaggio video, perché serviva una sensibilità nuova. Bisogna sempre cercare di portare nuove curiosità e portare talenti di ambiti diversi. Non è certo una novità: nell’arte e nel design è comune fondere mondi differenti; sarebbe interessante farlo nel quotidiano anche col digitale.
L’art direction digitale di oggi è molto legata alla bellezza della fotografia: provate a sviluppare un sito web o un’interfaccia senza fotografie! Oggi l’accesso alle fotografie belle è molto più semplice, con tutti i database esistenti, ma provate a fare qualcosa senza questi contenuti, provate a vedere cosa si riesce a comunicare o fare.
Tu hai un know-how molto particolare all’interno della fotografia che ha avuto su di te un impatto molto importante, giusto?
Sì, devo dire che la passione per la fotografia è una delle ultime cronologicamente, nata 15 anni fa dal fatto che il mio lavoro di art direction era sempre legato alla fotografia: ho pensato che, oltre a guidare bene un fotografo, volevo capire come si facesse in prima persona.
Mi sono innamorato subito della fotografia street, di raccontare le emozioni delle persone che ci circondano, ma ho anche imparato subito ad applicare gli insegnamenti del mio lavoro alla fotografia: quando uscivo e imbracciavo la mia macchina fotografica, lo facevo con un’idea particolare in mente, anche semplice, ma precisa.
Uscire di casa e avere l’idea banalissima di voler raccontare la vita dei mercati rionali a Milano è già un’idea; vedere le persone andare al Cimitero Monumentale per capire i loro sentimenti è già un’idea. Esci con un progetto.
Poi c’è la passione per la fotografia di fashion, perché una delle mie passioni e conoscenze è la moda, il lusso nei termini anche socio-demografici, non per il fatto di possederli, per carità (non posso neanche permettermeli).

Mi sono dunque spinto a fare qualche freelancata, ma non ho mai pensato o voluto la fotografia come lavoro. Anche perché la fotografia di moda, per quanto sembri più semplice – perché hai di fronte una bella modella con un bel vestito – ha un’organizzazione, una progettazione, il concept,
la location, le persone e gli assistenti… è un lavoro a parte. Ho fatto giusto un’incursione.
A cosa mi ha portato questo interesse per la fotografia? A lavorare bene con un fotografo, a parlare con lui con la stessa lingua, a ragionare con i giovani registi, a lavorare meglio a un video più affascinante o riflettere sulla fotografia di un film.
Mi è servita proprio anche oggi per sbloccare una campagna stampa dove c’era una fotografia bella ma che non convinceva il cliente e l’abbiamo trasformata con un lavoro di luce, con le mie direzioni.
L’esperienza di fotografia per un art director – ne ho conosciuti tanti che la amano – c’è sempre, che sia con il cellulare o una macchina fotografica: il nostro mestiere non è solo fatto di penna ottica, ma di tante cose.
Quello che ci accomuna è la nostra voglia di avvicinarci a stimoli diversi, di provare potenzialmente tutte le arti visive (pittura, disegno, fotografia): tutto può aiutarvi molto nel lavoro che fate. Per la fotografia: non bisogna fermarsi mai al suo aspetto amatoriale della domenica o in vacanza, ma fare cose in più, lavorando meglio sulla luce; per la pittura: bisogna sperimentare le tecniche, capire di più sui pittori e la storia, perché questo può aiutare sempre nel lavoro.
Lo sguardo del Creative Director sul mondo d’oggi delle agenzie, dei brand e dei social network
Molto spesso il pubblico pensa alle agenzie come quegli ambienti delle serie Tv come Madmen, dove anche la figura del Creative Director è molto particolare. Qual è il tipo di percezione di un vero Direttore Creativo nel vivere all’interno di un’agenzia nel 2020?
Allora ti direi che più che Madmen l’agenzia di oggi potrebbe somigliare a Boris (ahah).
Nel senso che tutto quello di cui ti ho parlato è nelle agenzie la normalità: i senior sono tutti dei talenti pieni di passioni e capacità che vanno oltre solo la loro art direction, e si intendono di moda, fotografia, pittura, poesia… Alla festa di Natale, per esempio, c’è sì una band che suona fino a tarda notte, ma prima ci sono i nostri colleghi che suonano divinamente musica rock con chitarra e batteria di qualità altissima.
Malgrado i luoghi di lavoro siano uffici normali e non dei posti roboanti come gli Headquarters americani di aziende come Apple e Google, le agenzie sono piene di persone con queste attitudini; ed è questo il bello: perché è sempre stimolante e un passo avanti. Certo, ci sono gli account che sbrigano il business (ahimè, ci devono essere), ma sono comunque persone che respirano lo spirito dell’agenzia.
Madman racconta un’agenzia di un certo tipo che esisteva una volta, con la pressure di certi budget internazionali – che tuttavia abbiamo anche noi – ma con la perdita un pochettino della creatività che c’è dietro.
Inoltre quello che veniva richiesto a quei tempi era una cosa sola: o un soggetto stampa o un film; oggi viene richiesto di fare un progetto di comunicazione o digitale a cui spesso bisogna unire anche eventi e, di conseguenza, attivazioni digitali o tv per spingerli.
Alla fine noi – come in Madmen – risolviamo problemi, con un certo approccio di qualità e spesso lottando con i tempi: i social cavalcano velocissimo. Ci sono altri mestieri che hanno bisogno di tempo; il nostro ha bisogno di tempo per essere fatto bene ma ci viene richiesto di andare sempre più veloci.
Viene creata molta più comunicazione che in passato e i nostri stessi clienti sono demandati, a loro volta, di fare un lavoro molto più complesso: negli anni ’80 ai brand manager veniva richiesto di fare una campagna radio, una campagna tv o stampa multi-soggetto ogni tanto; oggi un brand manager nella stessa posizione deve guardare tutti i piani social – su tutti i social – che cambiano in continuazione, diverse campagne radio, diverse pianificazioni media digital, tutti i formati banner speciali e non speciali che ci sono, l’attivazione sul Territorio, le affissioni, le stampe, i video e gli spot dei video (che devono avere diverse conformazioni se lo metti su Youtube o i social, a livello di montaggio e storytelling).
Il lavoro è molto più complesso e articolato: ma, per certi versi, è ancora molto stimolante.
Abbiamo parlato di velocizzazione del lavoro anche in relazione ai social, all’arrivo dell’instant marketing e una sempre più preponderante presenza dell’influencer marketing all’interno di campagne pubblicitarie. Qual è la tua opinione in merito e quali sono i pro e i contro di questo bisogno continuo di reazione?
Ci deve essere sempre un progetto e un concept creativo, anche nel lavoro con gli influencer: non posso inserirli nella campagna perché “è di moda”, ma perché c’è un’idea dietro che è veicolata benissimo con quel tipo di influencer. E questo puoi farlo solo conoscendo profondamente il brand. Ci sono sicuramente anche gli influencer che vanno bene per tutto: bellissime ragazze, che sono anche delle mamme, delle modelle, che sanno anche parlare, che capiscono anche di musica.
Però loro molto spesso fanno quei post in cui ti fanno vedere cosa cucinano e ti mostrano il prodotto, o ti fanno vedere che sono andate a passeggio vestite in un modo particolare per stare comode; un progetto di comunicazione, invece, contiene in sé il motivo della scelta di quell’influencer.
Qualche anno fa in McCann ho fatto una campagna per Prosciutto di Parma dove ho chiamato Casa Surace. L’idea che univa il tutto è che se hai cordialità e buon umore – concetti semplici e condivisibili – sei un po’ di Parma anche tu: pertanto anche Casa Surace poteva essere un po’ di Parma e abbiamo creato una serie di contenuti fatti ad hoc, in cui hanno avuto massima libertà nello scrivere le loro sceneggiature (e quindi non trasformandoli in attori), ma lavorando di concerto per far riconoscere quanto più la brand, il suo tono di voce.
Il contenuto creato era per la brand e faceva bene al brand; in evidenza non c’era solo il prodotto, ma i suoi valori e il suo purpose: questo è il lavoro che si deve fare sempre, altrimenti è una scelta di una figura basata solo sui numeri che fa, e l’approccio solo numerico è sbagliato.
Ogni giorno cerco di lavorare e conoscere il più possibile il mondo degli influencer, periodicamente rispetto alla tipologia di brand con cui sto lavorando o delle mie passioni, in modo tale che sia pronto, una volta che un lavoro mi viene assegnato.
Bisogna essere sempre informati o scegliersi delle formazioni informatizzanti in continuazione: questo è un aspetto fondamentale perché, accanto alla curiosità, significa scoprire, imparare, studiare: anche se ho esperienza e ne so meno di altri su certi aspetti, devo comunque conoscerli perché sennò non sono up-to-date e non riesco a lavorare e innovare; diventerei solo un vecchio che fa pubblicità e digitale di 30 anni fa mentre oggi ci sono cose nuove.
L’instant marketing – che per me è real-time marketing – mi intriga molto: significa lavorare molto a contatto con le persone, rispondere in tempo reale a quelle che sono determinate esigenze, a far capire che la brand non è una cosa asettica ma ha un team che lavora insieme per far vivere il brand in continuazione.
“la brand non è una realtà a se stante, è vivo e deve comunicare costantemente con le persone e conoscerle”
Perché all’interno di molti brand, soprattutto di moda, ci sono delle vere proprie agenzie? Perché la brand non è una realtà a se stante, è vivo e deve comunicare costantemente con le persone e conoscerle. Deve comunicare anche con le proprie mani, attraverso post bellissimi e idee creativi, tutti i giorni. Per questo ha bisogno di persone che trasmettano costantemente la propria vitalità e i propri valori.
Abbiamo visto nell’ultimo anno situazioni che sono state cavalcate dai brand che si sono schierati e hanno utilizzato il loro potere mediatico per portare responsabilità e aumentare la velocità dell’impatto sociale di certi argomenti sul pubblico, come nel caso di Black Lives Matter. Quale tipo di approccio dovrebbero avere i più grandi brand quando si avvicinano a temi delicatissimi? E quali finalità dovrebbero avere queste comunicazioni?
Già 10 anni fa si diceva che le brand dovessero avere un purpose, un motivo della sua esistenza, una ragione d’essere nella quotidianità delle persone.
Oggi le brand, da quando nascono, devono domandarsi quale sia il loro ruolo all’interno della società: non solo la vendita dei prodotti, ma anche come questi vengono fatti e con quali responsabilità.
Se quotidianamente si ricordano di avere questo ruolo all’interno della società e non sono solo entità astratte, allora è credibile il loro approccio quando si attivano per certe situazioni; se lo fanno alla ricordata e cavalcano un trend, allora risultano meno credibili.
Le brand deve ragionare sulla propria identità: io, lavoratore, non vado più a lavorare dentro un’azienda solo per ricevere uno stipendio, ma capisco e faccio miei i valori di quest’ultima; se lavoro per Nesquik so che non è solo una bevanda fatta di cacao e zucchero, ma un mezzo utile a far crescere il tuo bambino, che ha il ruolo importantissimo di nutrire i nostri figli.
Fa parte del nostro lavoro contribuire affinché la fiamma dei valori rimanga viva. Perché abbiamo capito, e così il consumatore e il cittadino normale, che oggi viviamo di brand, di prodotti, piccoli o grandi che siano. Se compro un prodotto dall’artigiano sotto casa io compro i suoi valori: mi interessa se paga le tasse, che tipo di legno e vernice ha usato. Mi pongo quelle domande. I valori dell’artigiano possono estrinsecarsi all’interno del suo prodotto, oppure dal fatto che è attivo per il quartiere e dunque non fa solo un mestiere, ma vive nella quotidianità.
Non compriamo solo un prodotto, ma siamo attratti anche dai valori che ci rappresentano.
Parlando di 2020, quanto l’ultima pandemia cambierà il modo stesso di fare comunicazione?
Bella domanda: se avessi la risposta sarei a capo del network internazionale, sicuramente (ahah)!
È qualcosa che cambia l’esecuzione stessa di alcuni progetti: lo si vede bene negli Instant film delle grandi compagnie telefoniche, dove il messaggio viene mutuato da quello che stiamo vivendo.
Ma anche il modo di comunicare e lavorare oggi viene influenzato: quello che ci ha insegnato la pandemia è che la vita quotidiana – nello stare con la nostra famiglia, i nostri amici, nell’assaporare un piatto al ristorante, nell’andare a farsi una passeggiata o a vedere una mostra – è ricca di significato.
Oggi ci viene detto di fare attenzione o che non possiamo andare a fare cose che abbiamo sempre visto come la normalità assoluta. La chiusura delle discoteche, ad esempio, ci permette di domandarci: cosa faranno i giovani il sabato sera? Quali sono le possibilità di comunicazione? Cosa possono fare le brand per farli divertire ugualmente? Quali prodotti o attivazioni?
La nostra vita cambierà perché stanno cambiando le nostre abitudini di vita; siccome la comunicazione si basa sull’intercettare le abitudini di vita delle persone, cercando di proporre qualcosa di interessante e meaningful, è necessario che la nostra comunicazione cambi ogni giorno. Non so come: quello che dico oggi può non valere domani e domani ancora.
E questo cosa significa per noi che facciamo comunicazione? Significa non farti più vedere solo la vita figata della città metropolitana – che probabilmente vedrai come un lontano ricordo o qualcosa di desueto – ma puntare su qualcosa di significativo per le persone.
Stiamo affacciandoci all’ultima parte del 2020 e l’inizio del 2021, che vedrà nuove prospettive. Quali sono i tuoi propositi e sfide per il prossimo futuro?
Mi aspetto una risposta che sta già arrivando dai clienti con cui lavoro: proprio quella di tornare a essere rilevanti per la gente.
In quale maniera? Alleggerendo un pochino l’ansia. Una cosa che ha caratterizzato il Covid non è solo il cambiamento fisico del posto di lavoro o il mettersi una mascherina, ma la moltiplicazione delle ansie che già ci guidano nel quotidiano. Probabilmente il ruolo della comunicazione è di alleggerire l’ansia delle persone, forse rendendola più divertente, riflessiva per certi versi, ma che ci permette di accendere la tv e non avere la pesantezza delle notizie, ma più leggerezza: noi cerchiamo di mettercela un po’ dentro.
Un po’ di sorriso, un po’ di ironia, più che in passato. Probabilmente da addetti del mestiere sentiamo da tempo che ce n’è bisogno: non ci permettevamo di farlo qualche mese fa perché eravamo chiusi dentro casa e poteva essere capito in maniera diversa.
Ci aspetta un Natale diversissimo da quello degli altri anni. Se la comunicazione non porta lo spirito del Natale, non solo lo spirito di acquisto, ma lo spirito di Natale vero, più autentico, avremo fallito nel nostro compito: perché il nostro scopo non è solo quello di aiutare le brand a vendere più prodotti, ma ad avere un ruolo nella vita delle famiglie e di cercare con la nostra comunicazione di far sì che questo tipo di atmosfera non venga perso.
Quest’estate tutto sembrava fighissimo, tranquillo, pareva che la pandemia ce la fossimo portata dietro. Intanto, ogni volta che accendevamo il telegiornale c’erano le notizie del Covid in tutto il mondo e, benché in Italia ci fosse un po’ meno, abbiamo dovuto comunque chiudere le discoteche e i casi sono saliti.
L’ansia ci attanaglia: come genitore c’è l’ansia per mia figlia; come lavoratore c’è l’ansia di tornare in ufficio, che sia sicuro o meno, perché poi devo tornare a casa. L’ansia ci guiderà ancora per molto e la nostra comunicazione ci aiuterà a diminuirla un pochettino.
Siamo in conclusione: molti dei nostri lettori sono giovani studenti e attraverso di noi si avvicinano al mondo della comunicazione o riescono a capirlo meglio. Ti andrebbe di dare un consiglio proprio a questi giovani e, nello specifico, coloro che si stanno approcciando al mondo della pubblicità, anche digitale?
Sicuramente ai giovani voglio dire, soprattutto a quelli che fanno un percorso di studio accademico: se volete fare un mestiere di questo tipo dovete respirarlo, ovvero non dovete approcciarlo come se fosse la scuola con i compiti, ma piuttosto come se steste suonando la sera con la vostra band: provate, riprovate, proponete, fate pezzi, producete, fate.
“Se volete fare un mestiere di questo tipo dovete respirarlo”
Quello che vedo alcune volte sono ragazzi di 22, 23 anni che parlano di tutti i progetti della tesina e degli anni di scuola e che poi hanno un solo progetto fatto per conto loro; dovrebbero presentarne 10 fatti da loro, perché devono dimostrare come hanno imparato ad applicare e a lavorare!
Non fermatevi mai a quello che i vostri professori vi fanno fare. Fate progetti vostri. Rompete le scatole al supermercato sotto casa, l’artigiano, fate un progetto di comunicazione per loro, fate un sito web, fategli le foto. Vuoi fare il motion Designer? Bene: prendi un prodotto, prendi una foto bella di moda e falla diventare un’animazione. Fa schifo la comunicazione del kebab sotto casa? Rifategli tutto il pack! Quando ero ragazzino facevo di tutto pur di fare qualcosa nel mio ambito.
Cercate di respirare questa cosa, di esercitarvi, di creare, di applicare da subito quello che imparate a scuola.
Non fermatevi mai. Fate, Fate, Fate! Solo questo vi porta a crescere!
Meraviglioso, ti ringrazio davvero tantissimo.