Abbiamo avuto l’onore e il grande piacere di incontrare Armando Milani, esponente di spicco della grafica italiana e globale, che contribuisce da decenni a rendere riconosciuto e premiato il design “made in Italy”, attraverso i suoi celebri lavori di logo e poster design, i numerosi workshop tenuti nelle università di tutto il mondo, e – più recentemente – impersonando il prestigioso ruolo di Presidente di AGI Italy (Alliance Graphique Internationale), attiva da sempre nell’identificare e valorizzare i grandi maestri nostrani e le loro creazioni.
La lunga carriera di Milani è assimilabile ad un’avventura, divisasi fra vecchio e nuovo continente e costellata di importanti riconoscimenti e incontri con le più grandi personalità della storia del design italiano – Albe Steiner, Massimo Vignelli e Bob Noorda, per esempio – e della scena americana, fra cui i leggendari Paul Rand e Milton Glaser, che gli hanno più volte dimostrato la propria stima, l’amico Ivan Chermayeff e Paula Scher.
Un’intervista a una tale personalità non è stata dunque solo l’opportunità per celebrarne tutti i successi, i momenti salienti, di grande ispirazione, e passare in rassegna i suoi lavori più famosi, ma anche per toccare temi molto attuali, come ripercorrere l’evoluzione che la percezione della grafica e dei graphic designers ha avuto all’interno della società e vagliare tutte le prospettive – arrivando a vere e proprie frasi piene di saggezza – che i giovani hanno, immettendosi oggi all’interno di questo business.
La nostra approfondita intervista si è tenuta all’interno della vera fucina creativa del Maestro, il suo studio milanese, che abbiamo avuto il permesso di documentare attraverso i bellissimi scatti di Alis Mars, che ringrazio per la fondamentale collaborazione e di cui vi consiglio di cliccare qui e visitare la sua pagina Facebook!

Armando Milani, durante l’intervista nel suo studio
Buongiorno Maestro, grazie mille per averci concesso questi minuti insieme. Per iniziare, direi di ripercorrere i tuoi primi passi nel mondo del design: quali sono stati i momenti che hanno dato inizio alla tua brillante carriera?
A farla breve, incominciò all’Umanitaria nel 1960, con Albe Steiner: studiai con lui e devo dire che imparai da lui più l’etica del design, che non a impaginare un libro o disegnare un marchio. Secondo i suoi insegnamenti, la grafica e il design devono essere rivolti a tutti e non solo a un’élite di persone privilegiate: questo mi segnò molto.

Il marchio che ha vinto il concorso di RadioTeleFortuna, che riprende la forma di una targa dell’epoca, dal momento che il vincitore della lotteria in questione avrebbe vinto un’automobile
Vinsi in seguito un concorso molto importante nel ’65, per disegnare il marchio di Radio Tele Fortuna. Parteciparono 9000 designer studenti e la giuria era composta da Bruno Munari e Albe Steiner; furono proprio loro due a premiarmi: è stata una tappa importantissima della mia carriera, che mi ha dato la carica per il mio futuro.
Lavorai con Giulio Confalonieri, che era un grande grafico degli anni ’60 – ’80, un maestro delle immagini bruciati e in bianco e nero, con grandi caratteri e di grande contrasto. Poi iniziai l’avventura con il grande Antonio Boggeri nel ‘67, che dopo aver visto dei miei lavori pubblicati su “Pubblicità in Italia”,mi chiamò e mi chiese: «Vuoi venire a lavorare con me?» E io: «Figurati!» Dopo tre minuti ero già lì (ah ah)! Ed incominciò una consulenza, una collaborazione con lui che durò quasi tre anni, che si è poi trasformata in una grande amicizia.
Poi ho aperto il mio studio nel ’70, qui a Milano…
Quali sono stati i primi passi di questo tuo primo studio milanese? Quali sono stati i tuoi primi lavori?
Io ho sempre avuto, sin da quando studiavo con Albe Steiner, una grande passione per il design del marchio: perciò incominciai proprio con i marchi – il marchio di TeleFortuna fu uno dei miei primi – e poi, da lì, una volta che ti fai pubblicare, la gente inizia a riconoscerti come il designer del marchio.

Logo per Auditorium Midy

Logo di DePadova, sviluppato da Armando Milani insieme a Tom Gonda
poi ho lavorato molto per l’industria dell’arredamento, con DePadova – di cui ho fatto il marchio con Tom Gonda – e poi Cassina.

Logo per A. Mantegazza
Questo è un altro marchio molto importante, di Antonio Mantegazza, molto diffuso perché era stampato sulle cartine del telefono, da loro prodotte.

Logo per 3B
Anche il marchio di 3B fa parte di questi primi marchi: lo disegnai per un gruppo di tre architetti.

Marchio per La Costa dei Ciclopi
Il marchio della Costa dei Ciclopi, in Sardegna, era molto efficace per il fatto che suddividendolo si poteva ottenere questo pattern, utile per le applicazioni su tende, moquette ecc.

Marchio per La Costa dei Ciclopi diviso in tiles
Questo marchio dei Ciclopi è ancora utilizzato, ho visto!
Davvero? Ah! Bisogna che mi faccia pagare, non lo sapevo neanche! (ah ah)

Logo per Euromar Import-Export
Questo era molto appropriato: Euromar Import-Export, uno dei miei primi, nel ’70, addirittura.
La mia grande fortuna – ma mi diedi anche molto da fare – è che all’ufficio grafico della Roche si creavano dei bellissimi progetti, chiedendo ai grandi designer: venivano e ci presentavano i loro stupendi lavori. Tipi come: Confalonieri, Boggeri con Aldo Calabresi (grandissimo grafico svizzero)… ed è stata una grande fortuna quella di essere a contatto con i più grandi grafici.
Quali sono stati i principali insegnamenti che hai tratto da loro?
Da loro cercavo di carpire come una spugna; per esempio, Aldo Calabresi mi diceva: «Vedi Armando, la bravura consiste nel sapere qual è l’idea più adatta e appropriata e scartare le altre: sennò ti perdi!» Io ho avuto tanti studenti, anche molto bravi, che hanno tante idee e che dicono: «Facciamo qui, facciamo lì, andiamo dall’altra parte…». Ti perdi! Se hai scoperto una soluzione giusta e appropriata, devi focalizzarti su quella e poi, nel caso, fai delle modifiche: questa è una delle cose che mi hanno più colpito.
“Quando disegni un marchio o un progetto, devi trovare sempre un equilibrio fra la forma e il contenuto”
Insieme a ciò, mi colpì anche l’attenzione verso la forma e il contenuto dell’idea: lo diceva anche Paul Rand, che ho avuto la fortuna di conoscere negli Stati Uniti: quando disegni un marchio o un progetto, devi trovare sempre un equilibrio fra la forma e il contenuto, perché se l’idea è basata solo sulla forma, sarà molto bella ma non avrà significato; se è basata solo sul contenuto ha un significato ma è noiosa; è lì che sta la capacità del designer: quella di trovare equilibrio fra questi due elementi. Questo lo diceva anche Boggeri: i bravi hanno sempre delle basi che alla fine devono sempre coincidere, coerentemente al cambiamento dei tempi storici e delle loro esigenze.

Armando Milani, negli anni ’80, nel suo studio newyorkese
In seguito hai fatto un incontro che ti ha portato a New York…
Nel ’77 c’è stato il grande salto dall’altra parte dell’oceano: conobbi Massimo Vignelli qui a Milano, che vide i miei lavori e mi disse: «Tu sei molto bravo, cosa fai qui in campagna?» Non ho dormito per sei mesi, poi mi sono deciso. Fortunatamente avevo mio fratello Maurizio che lavorava già con me e gli domandai se se la sentisse di portare andare avanti lo studio a Milano (era giovanissimo, aveva 21 anni) e avevo chiesto a Vignelli la possibilità di tornare in Italia ogni paio di mesi.

Massimo Vignelli indica l’introduzione da lui scritta alla mostra di Armando Milani al Vignelli Design Center di Rochester (NY). Il titolo da lui scelto: “Rendere l’intangibile tangibile”
L’idea era quella di stare solo per due anni – anzi meno, un anno – per fare tutta l’immagine coordinata della Lancia; poi è saltata fuori la CIGA. Sai, sono lavori enormi con manuali grandi così: allora mi chiese di rimanere un altro anno; dopodiché mi sono sposato (ah ah) e mi sono preso un enorme loft a Midtown, che poi in seguito ho venduto a Ornette Coleman, il celebre sassofonista. È stata un’esperienza eccezionale! E poi Vignelli era un personaggio incredibile: bravissimo designer, con una cultura immensa, razionalista e minimalista.

Logo per Lancia, in collaborazione con Massimo Vignelli

Manuale dell’identità di Lancia – in collaborazione con Massimo Vignelli

Manuale dell’identità per CIGA Holels – in collaborazione con Massimo Vignelli
Cosa ti ha spinto a New York? E cosa, invece, via da Milano?
Beh, io ero già abbastanza arrivato: avevo 36 anni e avevo bisogno di nuovi stimoli.
Ho avuto la possibilità a New York di conoscere tutti i più grandi: Ivan Chermayeff (designer bravissimo, morto poco tempo fa, mio grande amico), Henry Wolf, Rudy de Harak, Milton Glaser; sai sono conoscenze che ti arricchiscono… E poi è una città dove ogni sera puoi andare a vederti una mostra, o andare a un museo, o all’AIGA, e capire anche come lavorano là, in un altro mondo.

Armando Milani, in una foto recente in compagnia di Milton Glaser
I grandi del Bauhaus se ne sono scappati tutti dalla Germania e hanno fondato scuole di grafica a New York o Chicago; c’è stata dunque una fusione fra la genialità anglosassone delle agenzie americane con il rigore di questi geni del Bauhaus, o svizzeri, e da lì è nato un nuovo modo di esprimersi. Paul Rand ne è stato un esempio: i suoi primi lavori sono per me troppo illustrativi; poi dagli anni ’60 e ’70 ha effettuato questa fusione con il design europeo.
Hai preso molto anche dagli altri designer americani?
C’è stato molto da imparare: loro hanno un senso dell’humor anglosassone diverso dal nostro. C’era poi per esempio Chermayeff, che a me piaceva moltissimo: non sono un’illustratore, ma mi piacciono molto espressioni come quelle di utilizzo del collage.

Santo Domingo, 2003: Armando Milani, in coimpagnia di Ivan Chermayeff e Henry Wolf
Questo mi ha aiutato molto: nel mio design non c’è questo rigore che trovi per esempio nel lavoro di Vignelli, che mi è però servito molto per impaginare con le griglie. Io sono uscito un po’ da quel minimalismo. Anche relativamente all’uso di altri caratteri tipografici, non mi sono trovato alla fine perfettamente d’accordo con Vignelli: lui infatti diceva che non si dovessero utilizzare altri caratteri al di fuori di sei selezionati, anche se una volta, in una scuola, abbiamo fatto una battaglia per arrivare a dodici: «Concedicene dodici!»
E lui ha ammesso questi dodici?
Sì, ma con fatica (ahah)! Che poi lui ha usato l’Optima per la St. Peter’s Church: e quel carattere non rientrava; allora gli dissi: «Ma lì hai usato quello!» Che poi lì era adattissimo: bisogna sempre capire in quali casi è adatto un Bodoni, piuttosto che un Helvetica, eccetera. Non bisogna tanto correre in giro, però, soprattutto per i testi: c’è l’Helvetica, l’Univers, il Futura, il Bodoni, il Century Schoolbook, anche quello molto bello…

La storica foto che immortala la lista dei caratteri concessi da Massimo Vignelli, eccezionalmente estesa a 12 su insistenza di Armando Milani.
E secondo te ce ne sono di nuovi che possono essere annoverati in quella lista oppure no?
Ti dirò: io sui caratteri non faccio tutta questa grande ricerca, io vado più per le immagini; se poi dentro, giustamente, ci sta un Bodoni oppure un Times… Poi ci sono tanti caratteri, alcuni belli, altri meno, molti orribili che non servono a niente.
Come il “Gorilla”?
Il gorilla! Come fai a saperlo? (ah ah) L’ho nominato tante volte: è una cosa orribile! A parte la bruttezza… Il nome!

Gorilla, uno dei caratteri “non necessari”, secondo Armando Milani
Non vedremo quindi molto presto un carattere rivoluzionario come è stato l’Helvetica per lo scorso secolo?
Ah, questo non lo so: so che c’è tanta gente che disegna caratteri a non finire e io sono un po’ perplesso. Perché impiegare la propria vita a disegnare caratteri nuovi? Io capisco benissimo che si divertano – e guadagnino, anche – però io ho altre aspirazioni!
E a quelle compagnie che fanno creare il proprio carattere tipografico ad hoc, cosa rispondi?
Ah, se se lo fanno disegnare apposta, se è bello e leggibile, posso anche capirlo: è come disegnare un marchio: è un carattere che diventa tuo e io sono d’accordo, perché no? Diventa un elemento che ti distingue dagli altri.
Io so che il Vignelli aveva un po’ corretto il Bodoni, l’aveva chiamato “Our Bodoni”, aveva accorciato un po’ le ascendenti e discendenti e secondo me aveva anche ragione, ma Bodoni stesso si sarà rivoltato comunque nella tomba, vedendo il suo carattere che è stato modificato (ah ah).

Il font “Our Bodoni” ideato da Massimo Vignelli, che si sarebbe dovuto adattare meglio all’utilizzo con l’Helvetica
Tornando alla tua biografia, dalla tua fase americana sei sempre stato in giro per il mondo,facendo moltissime esperienze…
… Sì, e con diverse culture, per imparare anche a trattare in base al cliente che trovi! Io ho lavorato a New York, per esempio, per tutti i più disparati clienti.
Qualche aneddoto?
Un aneddoto… tu sai che cos’è la resilienza? Questa capacità di riprendersi dopo una batosta. Uno dei primi lavori lo feci per un ristorante che si chiamava “Fiorello”, nonostante mi avessero avvisato che il proprietario fosse un tipo difficile. All’inizio della mia esperienza NewYorkese facevo di tutto e risposi ugualmente: «Va beh, vado da Fiorello!» Feci questo marchio, tra l’altro tutto a mano su un foglio di lucido, glielo portai e lui mi fece: «I never saw a piece of shit like that in my life» (ah ah). Gli risposi: «Ma veramente il “piece of shit” è quella cosa che tu hai attaccata fuori!»

Armando Milani durante l’intervista
Quindi tutti quanti siamo destinati a passarci, almeno una volta nella vita!
Sì! Voglio dire: ero ancora nuovo allora, lì a New York! Tornando a casa, ero un po’ depresso; poi mi ripresi e progettai tante altre belle cose. La cosa divertente è che, dopo anni, mentre stavo parlando con Chermayeff e gli stavo raccontando un po’ della mia vita, lui mi fece: «So che prima sei andato da Vignelli, e che ora lavori per conto tuo!» E allora replicai: «sì, ma guarda che all’inizio non è stato tanto facile» e continuai raccontandogli quella storia. Lui si sorprese molto: «Ma quello lì è Mister Fireman! Anche a me è successa la stessa cosa!» E mi rivelò che era successo anche a Milton Glaser. A quel punto pensai: «Beh, allora sono in buona compagnia!» (ah ah).
In quel periodo, ho disegnato il marchio e gli inviti per la discoteca Xenon: allora c’erano due discoteche in competizione, Xenon e Studio54 e tutti andavano lì per divertirsi per intere nottate. Lì si celebravano spesso i compleanni e ho conosciuto Muhammad Ali e Pelè, che aveva organizzato un party con quaranta ballerine in tanga sui tavoli (ah ah).
“Abbiamo giocato con Pelè quindici minuti e ha fatto cinque goal”
Ho una storia bellissima con Pelè. Io ero amico di Sirio Maccioni, grande ristoratore; lui e la sua squadra giocavano a calcio contro un altro ristorante e mi chiesero una volta di giocare con loro: io giocavo abbastanza bene – erano gli altri a non essere molto bravi – e l’altro ristoratore era arrabbiatissimo perché vincemmo 5-2. Ci disse allora: «Settimana prossima anch’io porto qualcuno!» Era Pelè. Abbiamo giocato con Pelè quindici minuti e ha fatto cinque goal; era molto simpatico, un bel tipo. In quegli anni ci divertimmo molto, poi non so: penso che, dopo l’attentato alle torri gemelle, New York si sia calmata un po’.

Il logo tridimensionale, all’interno della Discoteca Xenon di New York.
A un certo punto, sei tornato in Italia: qual era la visione dell’Italia che avevi del nostro Paese dall’America?
Io, e anche Vignelli, abbiamo sempre ammirato molto quello che succedeva qui in Italia: anche quando ero a New York si parlava sempre ed eravamo sempre in contatto. Non solo guardavamo molto riviste come Domus o Abitare, ma ricevevamo anche la visita di molti designer italiani che venivano a trovarci. Tante altre volte, invece, ero io a tornare in Italia per trovare i miei amici, fra cui Antonio Boggeri a Santa Margherita.
Sai, io penso che non ci sia più questa grande divisione di scuole di design come una volta, come la scuola svizzera: ora con la tecnologia e il computer ognuno vede quotidianamente quello che fanno gli altri a livello internazionale, ne viene influenzato, anche inconsciamente, in maniera da trovare delle soluzioni differenti.
(Il Maestro Milani approfondisce la sua produzione americana di identità e quella più recente)

Logo per il Centro Diagnostico Italiano
Ah, Centro Diagnostico: questo è utilizzato ancora oggi. Ecco perché mi piace disegnare i marchi: perché te li ritrovi a distanza di quarant’anni, li rivedi in giro e dici «Ah però!» Se disegni una brochure, dopo qualche mese non c’è più, sparisce; mentre il marchio, o anche il libro, no.

Logo per Dialogos
Questo l’ho disegnato quando sono tornato a Milano, per una casa editrice di psicologia: la Dialogos; mi piace la sua ambivalenza: può essere interpretato come un fiore che diventa un libro, o anche un libro che diventa un fiore.

Logo per Silver Fox
Silver Fox: sai che questo me lo hanno richiesto adesso? Lo progettai per un albergo a New York e adesso me lo richiedono da Los Angeles: dato che quello prima non me lo pagò, ora me lo faccio pagare (ah ah).

Logo per Area Group
Il logo per Area Group è stato molto difficile, perché il cliente si chiamava Sfera e voleva passare a una “A”, però mantenendo un riferimento alla forma geometrica: allora io mantenni la sfera aggiungendo solo la barra; lui ne fu molto contento! È uno dei marchi più belli che ho realizzato, per la sua tridimensionalità.

Logo per Bottega Veneta
Questa è Bottega Veneta: lo realizzai a New York per i loro negozi in tutto il mondo, ma che purtroppo oggi non è più utilizzato, perché Bottega Veneta ha venduto il brand alla holding di Gucci e non è più in circolazione.

Logo per Uomo Moda
… E questo, invece, è un marchio molto importante. Paul Rand, quando gli mostrai i miei lavori, mi disse che era il suo preferito; sembra semplice, ma ha la particolarità di far leggere “Uomo Moda” in tutti i modi. Uno studente obiettò una volta: «Ma è facile! Che fortuna!» A momenti lo ammazzavo (ah ah)! Ma come puoi dire una cosa del genere? Io per arrivare qui ci ho lavorato un mese! Di solito disegno trenta o quaranta marchi, prima di arrivare a una soluzione.
“Di solito disegno trenta o quaranta marchi, prima di arrivare a una soluzione”
Ci sono tre cose che mi piace fare: oltre ai marchi, i libri e i manifesti, soprattutto se culturali e a scopo sociale.

Armando Milani durante una conversazione con Armin Hofmann e Paul Rand, qui di spalle
(Il Maestro Milani ci mostra i suoi poster più famosi)
“Quando un’idea è giusta, è forte; immagini come queste saranno sempre attuali, anche fra cinquant’anni”
Il Vignelli diceva che “good design is timeless”: quando un’idea è giusta, è forte; immagini come queste saranno sempre attuali, anche fra cinquant’anni.

Poster per Cineclub Brera, per una rassegna di film legati al concetto di protesta
Io amo le immagini senza parole. Non si può sempre, è chiaro, ma se ci si riesce, sono felice: qui, infatti, anche se non metti il titolo, capisci che si tratta di gente che contesta.

Manifesto per la Pace, di Albe Steiner
Come in questo lavoro, il mio preferito di Albe Steiner: lui ha scritto Pace ma non ce n’è bisogno! Lo vedi: l’elmetto e la rosa che esce dall’elmetto parlano da soli.

Poster contro il Fumo
O come nel mio poster contro il fumo, che non ha bisogno di parole.

Immagine per IBM Series 2
Questo è per IBM; è stato realizzato in plexiglass pezzo per pezzo; poi è stato montato, cambiando sotto la carta colorata trasparente. Ne abbiamo fatti quattro di diversi colori. È piaciuto molto a Paul Rand; precisai, mostrandoglielo: «il marchio non è mio, però!» (Ah ah).

Poster per la Pace, utilizzato per il 60° Anniversario delle Nazioni Unite
Ti racconto la storia di questo manifesto: io l’avevo fatto per Natale, come augurio per i miei clienti: funzionava infatti anche in Italiano con le parole “guerra” e “pace”. Me lo pubblicarono sul Corriere della Sera e incominciò a diffondersi.
“Chermayeff mi suggerì: «This Idea belongs to the world»; allora, presa la carica, lo mandai alle Nazioni Unite, che l’accettarono subito”
Poi, in America, a un meeting di designer in cui c’erano, fra gli altri, anche Chermayeff, Henry Wolf, Emanuel Estrada e Lance Wyman, quando tutti mostrarono i propri lavori davanti a un pubblico di cinquecento persone, a un certo punto io proiettai proprio questo poster: si alzarono tutti in piedi – in cinquecento, mi vengono ancora i brividi – per battermi le mani per un minuto (sai, era il periodo anche della guerra in Iraq). Chermayeff mi suggerì: «This Idea belongs to the world»; allora, presa la carica, io lo mandai alle Nazioni Unite, che l’accettarono subito per il loro sessantesimo anniversario.

Merchandise legato alla colomba della pace; il poster è adattabile anche in più lingue
Ora hanno realizzato magliette e gadget con sopra questa immagine.

Poster per Bibliotheca Alexandrina
Questo è un poster per la Biblioteca Alessandrina e rappresenta il faro, simbolo di Alessandria, che diffonde la luce della cultura.

Poster per la raccolta “24 poster per Napoli”
Questo manifesto è molto famoso; faceva parte di un gruppo di ventiquattro poster di designer internazionali per la promozione di Napoli. L’hanno usato ancora, a distanza di vent’anni, per una campagna sui giornali a favore della pulizia nella città.

Poster “I am not a Number” per il Wolfsonian Museum
Questo poster, invece, l’ho realizzato per il Wolfsonian Museum, per comunicare che ognuno ha la propria identità.

Poster creato per il Calendario Storico dell’Arma dei Carabinieri, poi scartato
Questa immagine, un po’ “magrittiana”, l’ho disegnata per il calendario dei Carabinieri: rappresenta la protezione offerta ai cittadini sia di giorno, che di notte; purtroppo, però, non è stata ben capita: hanno preferito infatti usare un’altra mia immagine…

Poster per AGI Congress in Brasile
Questo è il manifesto dell’AGI in Brasile. Sai, loro amano molto il lato B (ah ah): è la sua fusione con l’idea di amore.

Poster a favore dei diritti dei lavoratori
Questo me lo hanno richiesto in Sudamerica, per difendere i diritti dei lavoratori: il martello del lavoro e il martello della legge.

Manifesto per la mostra “Tolerance”
Questo è invece uno degli ultimi miei poster. Me l’ha chiesto Milton Glaser per la mostra nominata “Tolerance”: con questa scala spinata ho voluto rappresentare il concetto inverso: “Intolerance”.

Copertina del libro “Fifty Poems / Fifty Images”
Feci una mostra a Chiari (Brescia) e di fianco ai miei lavori misero alcune poesie di Lawrence Ferlinghetti che è un grandissimo poeta italoamericano. Leggendole, notai subito un link fra le sue poesie e le mie immagini; allora gli scrissi: – pensa, non l’ho mai conosciuto – «vorrei fare un libro con le tue poesie di fronte ai miei manifesti»; gli inviai allora i miei poster e a lui piacque subito l’idea: andai avanti, mettendo cinquanta delle sue poesie, affiancate da altrettante mie immagini. E questo libro ebbe un grande successo.

Due pagine tratte del libro di Milani e Ferlinghetti
A me piace sempre mettere in contatto i grandi designer e fare libri come questo…

Copertina di “A Double Life of 80 AGI Designers…”
Ho realizzato anche il libro “A double Life of 80 AGI Designers”. Girando per New York a Downtown vidi un camion con la scritta “Milani Movers”, ovvero “Milani Traslochi”; mi feci una foto così, per scherzo, e la mandai a mia mamma dicendole di aver cambiato lavoro (ah ah); lei si preoccupò molto…

La doppia pagina di Armando Milani in “Double Life” con la foto di Milani Movers Inc.
Pensai allora: «e se scrivessi ai miei amici dell’AGI chiedendo se avessero mai visto il loro nome usato in un altro business? Potrebbe diventare una raccolta divertente!» Poi lasciai un po’ andare l’idea… Ma, guarda i casi della vita: scendo dal mio studio e incontro Alan Fletcher, un grande designer, amico dell’AGI; mi abbracciò, simpaticissimo, e gli raccontai: «io ho questa idea: cosa dici?» E lui: «Beautiful!»

Armando Milani ci mostra la doppia pagina dedicata ad Alan Fletcher, di fronte a un omonimo fruttivendolo
Dopo una settimana mi inviò la sua foto con lui che vende frutta e verdura: era un personaggio, Fletcher… guarda la bellezza di questa foto! Poi sono andato anche da Paul Rand e non solo mi mandò la sua foto, mi scrisse perfino l’introduzione al libro! Poi piano, piano raccolsi anche le foto di Chermayeff e di tanti altri, fino a ottanta partecipanti.

La doppia pagina di Paul Rand di “A Doble Life of 80 AGI Designers…”, di fronte a un cartello di Real Estate

Doppia pagina di Saul Bass di “A Double Life of 80 AGI Designers…”, con la sua foto in posa di fronte alla celebre birra Bass.
Ho visto che c’erano anche i nostri italiani: Vignelli, Noorda…

La doppia pagina di Massimo Vignelli, di fronte al ristorante Maxim’s

La doppia pagina con la foto di Bob Noorda, di fronte a un camion di Acqua Minerale
Ah Sì! Che poi, parlando di cose divertenti, su Noorda; mi disse quella volta: «Eh ma io avrei l’acqua Norda, ma non ha due “O”!» Allora gli suggerii: «Metti una “O”, fai finta di aggiungerne una!» Poi Monguzzi, Lupi, Waibl, che ha un nome austriaco ma è italiano.

La copertina di “No Words Posters”.
In seguito ideai anche il libro “No Words Posters”, una raccolta di quasi duecento manifesti, i cui autori erano fra i migliori designer al mondo: tutte le immagini raccolte parlano da sole. Chermayeff mi scrisse in seguito una lettera su “No Words Posters”, rivelando: «è il più bello di poster che abbia visto nella mia vita».


Doppie pagine da “No Words Posters”
Una cosa interessante è che questi tuoi lavori sono stati esposti un po’ ovunque: da Rochester (NY) a Pechino, Parigi, Londra, Teheran, Città del Messico, Il Cairo…
Sì infatti; adesso a Il Cairo abbiamo fatto una mostra: lì c’è mia figlia che ha sposato un egiziano e io cerco sempre di trovare un pretesto per andare dal mio nipotino che ha tre anni! L’ultima volta sono andato con quelli dell’Istituto Europeo di Design e ho conosciuto il direttore dell’Istituto Italiano di Cultura, gli ho fatto vedere i miei lavori e lui: «Dobbiamo fare una mostra!»

Uno scatto della mostra al Museo Luzzati di Genova
In tutte le mostre che hai fatto, comunque, i pubblici sono stati davvero diversi: c’è stata una percezione differente o il design è un linguaggio davvero internazionale?
Beh, il pubblico era sempre composto da studenti e professionisti del design e, anche girando in diversi paesi, io ho sempre notato un apprezzamento, soprattutto per il mio modo di fare la grafica sintetica e arrivare all’immagine che parla da sola. In Egitto c’era gente che mi diceva: «Non ho mai visto immagini di questo tipo che parlano da sole, così forti e immediate!» Ho riscontrato questa corrispondenza un po’ dappertutto.

Scatto dalla mostra a Teheran
Ora, qualche domanda sul design di oggi e su quella che è stata un’evoluzione di un ambito a te molto caro, quello dell’immagine coordinata, ora sempre più vicina allo studio progettuale legato al marketing e all’indagine di mercato: è qualcosa che, secondo te, ha dato o tolto qualcosa al design?
Mah, sono un po’ ambivalente: capisco che è molto importante testare il gusto della gente, però Paul Rand diceva che non bisogna assolutamente ascoltare gli uomini di marketing perché spesso ti impediscono di fare una buona grafica, in quanto loro pensano a vendere.
Tu conosci Gerstner e Kutner? Erano due grandi grafici svizzeri: mi ricordo del packaging che fecero per un detersivo di un Supermarket di una tale bellezza… Chi ha detto che devono essere così brutti questi packaging? Il marketing ti dice cosa fare e di mettere una scritta qui o lì, ma non è un approccio che per me funziona: secondo me bisognerebbe educare il pubblico ad apprezzare una buon grafica.
“Il marketing ti dice cosa fare […] ma non è un approccio che per me funziona: […] bisognerebbe educare il pubblico ad apprezzare una buona grafica”
Vignelli diceva che il grafico è come un medico: non è certo il paziente a dire e sapere che cosa deve prendere, ma il dottore, da cui ottiene tutto ciò di cui ha davvero bisogno.
La nascita quindi delle mega agenzie e delle multinazionali della comunicazione, sostanzialmente cosa ha determinato?
Io non sono molto dentro questo mondo dell’advertising e del marketing, però trovo non abbiano migliorato l’immagine di quello che c’è in giro: loro pensano a vendere e non è un mondo che mi interessa.

Armando Milani durante l’intervista. Nella foto è visibile la poltrona e il tavolo progettati da Massimo Vignelli.
Un tema vicino a quello sociale è anche quello politico: siamo appena usciti da una campagna di propaganda elettorale abbastanza sterile…
Già: non sono proprio capaci di utilizzare quei tanti bravi grafici che ci sono in giro.
Quale potrebbe essere il ruolo che il design dovrebbe avere nella comunicazione politica o che dovrebbe tornare ad avere?
Albe Steiner è stato un esempio di come si possa fare una buona grafica per la politica. Io inoltre mi ricordo Michele Spera che faceva dei bei manifesti per il partito socialista: si vedevano cose interessanti. Non so perché poi non abbiano continuato ad avvalersi del lavoro di bravi grafici. Ci sono tantissimi giovani grafici che farebbero dei lavori quasi gratis per loro, pur di mettere il loro nome; c’è proprio questa ignoranza in assoluto: escono delle immagini veramente banali.

Un manifesto di Michele Spera per il partito repubblicano
Parlando di giovani grafici: spesso si dice che i giovani siano anche più coraggiosi, anche nella sperimentazione: ma in che modo un designer giovane potrebbe essere coraggioso oggi e utilizzare la grafica in modo coraggioso?
Bella domanda: usarla in modo coraggioso è un po’ fare quello che sto facendo io con i miei poster. E poi, per farsi conoscere, bisognerebbe proporre progetti grafici di pubblica utilità a qualche associazione, oppure partecipare a un po’ di concorsi, sennò come fai?
Dici che il concetto di concorso è qualcosa rimasto importante nel tempo, oppure è superato?
Secondo me ha sempre importanza: se riesci a vincere un concorso e a farti un nome, riesci così a trovarti anche committenti. Se non parti da lì, cosa fai? Puoi lavorare, trovi dei clienti per cui poi ti devi dare da fare.
Oggigiorno non so, effettivamente, come facciano i giovani a trovare i clienti. L’idea è di fare delle cose quasi gratis, anche se non lo trovo molto giusto, ma iniziare a fare delle cose che portino a darti dell’esposizione: in base a quello poi firmi e, se sei bravo, pubblichi i tuoi lavori, la gente li vede e inizia a conoscerti; è una spinta continua, io ne so qualcosa: sono partito a New York, a Los Angeles per andare a fare pubblicità a me stesso.
“L’idea è di fare delle cose quasi gratis […] iniziare a fare delle cose che portino a darti dell’esposizione”
E poi ci sono tutti quei clienti che dicono: «Mia zia ha detto che…» e allora rispondo: «Ah sì? Beh, allora vai da tua zia!». Quando sei giovane, a volte devi mandare giù dei bocconi amari, quando devi fare un lavoro. Capisco benissimo quando qualcuno mi viene a dire: «Io devo pagare la luce, cosa faccio?» Io giù in Sicilia ho fatto un corso con Gianni Latino, dell’Accademia di Catania, e lì tanti studenti sono venuti da me e mi hanno chiesto: «professore, cosa devo fare? Loro vogliono che io lo faccia come vogliono loro!» E lì, sai, devi esser bravo a convincerli della bontà della tua scelta: devi imparare a giustificare quello che fai. Se tu spieghi loro e fai capire che sei sicuro di te stesso, loro ti seguono; se, invece, tu dimostri debolezza – dicendo: «Forse hai ragione tu…» – sei finito.

Armando Milani durante lintervista; in fondo si può intravedere una handbag con la famosa colomba della pace.
Qual è l’insegnamento più importante e fondamentale che daresti a un giovane grafico?
Intanto l’etica del design e cercare di aiutare la comunità facendo dei progetti che migliorino il livello della nostra vita. Cos’è la sostenibilità per un grafico? Disegnare un biglietto del tram? Il tabellone degli orari del treno o una bellissima segnaletica? (Non come quella della Malpensa che a me non piace per niente, con quelle freccione).
Credo molto nel lavoro del design per rendere più facile la nostra vita, da un punto di vista pratico – l’etichetta o il packaging di un prodotto possono essere belli – o da un punto di vista sociale, ed è quello che sto facendo io con i poster.
“Credo molto nel lavoro del design per rendere più facile la nostra vita, da un punto di vista pratico […] o da un punto di vista sociale”
Ci sono due tipi di manifesti: quelli che parlano di speranza, di una vita migliore, o quelli un po’ più drammatici di denuncia, perché non si può sempre dire “che bello, che bello”; bisogna cercare di creare delle immagini che facciano riflettere.
Io cito sempre El Lissitzky, soprattutto quando disegno un manifesto, che diceva: «devi prima affascinare l’occhio e poi colpire il cuore»: prima attiri l’attenzione e poi fai meditare il lettore, colpendo la sua immaginazione e intelligenza.
Quindi questo è il ruolo del designer che prefiguri essere quello dei prossimi anni?
Esatto! Poi, naturalmente, è sempre bello disegnare un bel marchio per un’azienda e vederselo in giro (ovviamente non fermandosi al marchio: devi disegnare tutta la corporate identity, che parte dal biglietto da visita e va fino al mezzo di trasporto; è tutto importante).
Siamo quasi alla conclusione; le utile domande sono più che altro delle curiosità; abbiamo visto la colomba e i poster principali,ma non sempre le cose più famose sono quelle che a cui il designer è più legato emotivamente o che rappresentano meglio la sua produzione: quali sono i marchi o i poster a cui sei legato maggiormente?

Nello studio del Maestro Milani sono esposte le sue più famose creazioni.
No beh, io sono legato più a quei poster che vedi qui in studio: anche quello della pace, che gira in tutto il mondo da 15 anni. Forse non è il mio preferito, però: sono un po’ indeciso fra la mano a Brera e L’africa, per non parlare di “Intolerance”, che è stato accettato nella mostra itinerante internazionale “Tolerance” di Milton Glaser.

Il famoso poster “Africa: the forgotten continent”, dove ogni “t” diventa una croce di uno sterminato cimitero
Poi tutte le volte che mostro i miei lavori agli studenti, chiedo alla fine quali siano i tre lavori miei li hanno più colpiti: finisce sempre che vengono indicati la colomba, la mano e l’africa; anche in paesi e culture diversi.
A me piace molto anche quello del filtro

Il poster “Filter” che tratta della necessità di filtrare le informazioni
che ha un significato molto importante: noi nella vita dobbiamo filtrare non solo l’acqua e l’aria, ma anche tutto il resto, soprattutto le notizie false: le fake news.
Un tema fortemente attuale!
Ah, ma io ho fatto anche un marchio, contro le fake news!

Il marchio di Armando Milani contro le Fake News, applicato su un poster tematico.
Che rappresenta il segno della chiocciola che diventa un serpente!
Il marchio ideato per la lotta contro l’alzheimer
Ne ho fatto uno anche contro l’alzheimer, di recente: diventa ALTzheimer e la “i” un punto esclamativo.

Il marchio disegnato per l’iniziativa francese “France Will Never Forget”; il marchio è ispirato al famoso poster PACE di Albe Steiner
Anche questo, infine, è molto importante. Dal momento che gli americani persero migliaia di ragazzi ad Ohama Beach, la Francia ha organizzato una settimana chiamandola “France will never forget” e mi chiesero di usare la mia colomba: allora io la feci uscire dall’elmetto, ispirandomi all’idea di Albe Steiner. Durante la celebrazione, i francesi scrissero “ France will never forget” con una coreografia di centinaia di persone sotto la statua della libertà e lanciarono da elicotteri con il mio marchio milioni di petali di rosa. Tante volte critichiamo gli americani, però senza di loro saremmo rimasti sotto il dominio nazista.

Elicotteri col marchio di Armando Milani lanciano petali al di sopra della Statua della Libertà
Secondo te dovremmo imparare da loro nel guardare cosa abbiamo in casa e valorizzarlo?
Ma certo, ma se poi pensi alla ricchezza anche artistica e naturalistica che abbiamo… dovremmo spingere su quello.
In Italia secondo te per noi giovani c’è speranza o è meglio partire? Dov’è meglio andare, all’estero?
Non saprei: un mio consiglio è quello di viaggiare comunque, conoscere gente nuova e culture e approcci nuovi; è elettrizzante, ti sveglia. Non c’è dubbio: fra le più consigliabili ci sono certamente Londra, New York, Shanghai…
Ultima domanda: so che quando si tratta di creare su digitale, poi passi il progetto ai tuoi assistenti; qual è una cosa per cui avresti voluto avere un computer, qualche anno fa? Una procedura davvero tediosa che facevi manualmente?
Io per esempio quando lavoravo con Confalonieri, dovevi contare le lettere e si mandava il tutto allaVideograf dove loro componevano ciò che volevi, ti mandavano la bozza, che poi bisognava ritagliare, incollare, per poi creare il tuo esecutivo con la cowgum. Immagina cosa sarebbe successo sbagliando a fare i conti: avresti dovuto rifare il tutto daccapo e ogni volta la procedura costava decine di migliaia di Lire di allora. Adesso fai “tic” e cambi giustezza, carattere, corpi, colori, fai quello che vuoi in tre secondi: da quel punto di vista per me è fantastico.

Armando Milani, durante l’intervista. Nella foto è visibile la scrivania del maestro, oltre che una serie di provini per doppie pagine di un suo progetto editoriale.
Lo sbaglio è quando certi designer pensano che il computer ragioni al loro posto: ci sono alcuni che usano la tecnologia con grande sapienza, molti altri si perdono e creano delle immagini confusionarie, con caratteri sovrapposti, sfocature…
(Il maestro Milani ci saluta introducendoci uno dei suoi ultimi progetti)
Poi c’è la storia di Ubuntu: l’anno scorso ho sentito per la prima volta questa parola, voi l’avete mai sentita?

Il poster con il simbolo della mostra “Ubuntu”, che cita la colomba della pace
Sì, utilizzata commercialmente per il Sistema Operativo.
Certo, ma quando ho sentito questa meravigliosa parola, mi è piaciuta molto; per prima cosa per il suo suono, poi per il suo significato: significa “umanità”, “sharing”, vuol dire “empatia” “rispetto” “tolleranza”, tutte queste parole di cui abbiamo bisogno oggi! E lì mi ha emozionato, soprattutto perché ho letto questa storia di un’antropologa che in Sudafrica ha preso 12 bambini, ha messo di fronte a loro un cesto di frutta e dolci a trenta metri dicendo che il primo arrivato, si sarebbe beccato tutto; loro si sono presi allora tutti per mano e sono arrivati lì per dividersi tutto: è una cosa che ti fa piangere.
Quando l’ho letto ho pensato: «Qui devo fare qualcosa!» Allora ho disegnato tre manifesti e poi ho incominciato anche lì, come sempre, a chiedere ai grandi grafici che conosco: qualcuno se ne è fregato, altri me ne hanno mandati…

Conferimento nel 2017 della Medaglia d’Oro a Città del Messico per i manifesti umanitari.
Non solo: sono andato in Messico, dove mi hanno conferito una medaglia d’oro all’Università Anahuac a Settembre – una cosa emozionante, perché poi hanno scoperto che era anche il mio compleanno e si sono alzati in ottocento a cantarmi “Las Mañanitas”, che sarebbe Happy Birthday – e, facendoci un workshop, ho preso una ventina di questi ragazzi e ho dato loro Ubuntu da progettare: sono venute fuori tre o quattro idee interessanti. Sono andato anche in Egitto, anche lì ho richiesto lo stesso progetto, e anche a Firenze con l’Istituto Europeo. Adesso vado a New York, a Rochester dove Vignelli ha fondato il suo archivio: lì c’è una scuola e un’università e farò fare Ubuntu anche lì.

La rotonda della Besana, luogo scelto per la futura esposizione “Ubuntu”
Il mio intento è raccogliere una cinquantina di grandi designer, una cinquantina di studenti e poi, a un certo punto, dato che la mia idea è quella di fare una mostra itinerante, ho chiesto a Francesco Dondina, che ha fatto la grafica del MUBA alla Rotonda della Besana – un posto fantastico – perché mi piacerebbe farla partire da lì; lui mi ha risposto: «eh, ma qui è un museo dei bambini, dedicato a Munari e ai suoi libri…» E allora mi è venuta un’idea: facciamola fare anche ai bambini! Tra l’altro, certe volte, sono più creativi di noi perché non hanno le nostre sovrastrutture…
…e si allontanano anche un po’ dall’utilizzo della tecnologia?
Esatto, diventano più spontanee! È piaciuta molto come idea, e adesso entro ottobre si fa la mostra! Sono molto eccitato e non faccio che lavorare a questo progetto.
Lo sai? Camus, grande scrittore, aveva scritto: “Don’t ask me to lead; I am not a leader. Don’t ask me to follow, I am not a follower. Just be beside me, I will be your friend forever.”

Il poster di Armando Milani dedicato a Camus, all’interno dello studio
È molto “Ubuntu”!
È molto Ubuntu. E poi io sono così: non sono un leader, un sono neanche un follower però (ahah)! Però credo molto nell’amicizia. E infatti Ubuntu riflette il mio pensiero e la mia speranza per il futuro dell’umanità.
Grazie mille Maestro